Yiannis Ritsos. ΔΕΛΦΟΙ (Delfi 1961-62)

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

DELFI

 

Oggi mi sono stancato molto – con questo caldo, poi; – tutti questi anni mi sono stancato
su e giù dal Ginnasio al Museo, dal Museo al Teatro,
dal Teatro allo Stadio e viceversa. Sono stanco di indicare
senza che loro vedano; di parlare senza essere ascoltato.
Forse perché sono vecchio.

[…]

Sono stanco di andare avanti e indietro per la Via Sacra, il Portico degli Ateniesi,
la Fonte, il tempio di Apollo, lo spiazzo delle Colonne, – mi sono stancato
come se camminassi da secoli. Credo di appartenere anch’io
alla famiglia delle statue, di avere la loro età
o anche di più.
Solo questa stanchezza
mi resta, tutta mia, – e mi piace; – che cos’altro dire?

Quanto durano poco – non solo gli uomini, ma anche le statue, le pietre.
Rovine. Rovine. Guerre su guerre.
Incendi, terremoti, saccheggi. Poi la quiete
delle rovine, tranquillizzante, consolante, senza fine. Percorri
la salita deserta fino allo Stadio; una pietra
rotola in un fondo incredibile, lasciando
in aria un vuoto senza risonanza; – lì dentro
puoi immergere la mano come sotto il tuo cuscino. Niente.
Quiete rappresa lungo le gradinate.
Solo il despota sole, che tutto osserva con indifferenza, forse anche con malignità,
mostra spietatamente i marmi mutili ogni giorno più dentro.

[…]

Senti, la fonte,
una piccola vena che sale dalle viscere della terra, senza perdere nulla
della sua segretezza – una vena recisa
così consapevolmente calma da tradire la sua profondità. E questo,
insieme alle altre cose, è inutile, inutile. Sono stanco.
Sono stanco di recitare date –

[…]

Perfino le statue sono stufe; stanche anche loro, innocenti,
belle, irresponsabili, plasmate
con tanta tenerezza da mani umane innamorate
e che mostrano in tutta la sua bellezza il corpo umano;
le statue, che hanno simulato gli dèi per nascondere la propria divinità,
per nascondere la loro grande, insopportabile sincerità
e passare, diciamo così, nell’immortalità completamente nude, – chi? – loro
ch’erano già immortali nella propria effimera bellezza,
loro che, proprio dalla mortalità, hanno sognato perfettamente
e plasmato perfettamente l’immortalità col loro vulnerabile amore.
Naturalmente, più tardi, soggiacquero anch’esse come i loro artefici alla tirannia.

[…]

A volte queste colonne, nel sulfureo chiaro di luna, somigliano
ai denti rotti di un dio gigantesco, e le gradinate del teatro
sono come le mascelle nude di giganti morti,
mascelle nude, calme e indifferenti
senza ormai più l’avvilente necessità
del cibo, del bacio, del grido, senza più
l’umiliazione della sconfitta, l’alterigia della vittoria, solo
con l’immobile e impersonale vittoria della nudità.

A cosa serve, dunque, tutto questo? – commenti, ripetizioni,
interpretazioni, traduzioni, reviviscenze, imitazioni?

[…]

Nella traduzione di  Nicola Crocetti – Crocetti Editore, 2012.

 

* * *

Soltanto una meditazione silente può seguire la lettura completa della traduzione di Delfi, in cui il ritmo calmo della notte che cala sulle rovine riporta dai versi il tempo al suo ciclo di calma naturale, di resa e abbandono, di silenzio fraterno, stanchezza riposante, infinita. E’ infatti la stanchezza smisurata di un Vecchio (una guida turistica) che ci investe fin dalle prime righe, una spossatezza di secoli che diventa la nostra stessa gravità in una specie di nenia che procede per lampi di memorie fra luci e ombre e voli d’aquile che stendono certe isolette segrete, oscure, quasi sotterranee, sul meriggio colmo di luce.

Il canto di una resa della bellezza, di un riconoscimento del suo esilio davanti all’estenuante richiesta di consumo che facciamo noi del suo bene. Un bene nudo e divino, ma tutto immanente, sognato perfettamente e plasmato dalla mortalità. Sono cose ormai fuori della storia, indifferenti, sole, fiere –

[…] non resta altro che un immobile nero
opposto alla volontà spossata delle statue;
perché le statue, col loro biancore, sono
il negativo di tutto il nero. Esse, con le loro mani mozzate,
ci donano molte cose, – o forse ce ne prendono? Che cosa
possono dare le statue?

Incontri impenetrabili per noi nella nuova libertà clandestina che si istituisce fra le statue, le rovine (sorta di muta Anfizionia). A meno di riuscire ad espugnarla cedendo distaccati, liberi, perduti come all’altezza di quella sospensione del suono di campane, come sorretti dalle due possenti ali di bronzo su in alto, senza sapere dove siamo, o se siamo e dove cadremo.

bologna. 20 ottobre 2013.