Stanze.

 

“Perché, si domandò, non riesco ad avere sempre lo stesso sentimento, sentire con assoluta certezza che Miss Milan ha ragione e Charles torto, e attaccarmi a questo, confidare nel canarino, nella pietà e nell’affetto, senza sentirmi sferzata da ogni parte quando entro in una stanza piena di gente?” Mabel aveva giudicato il suo aspetto e il suo mondo del medesimo carattere “vacuo, gretto, provinciale.” La convinzione l’aveva assalita, definitiva, quando salutò Clarissa Dalloway e subito “l’infelicità che cercava sempre di nascondere, quella sua profonda insoddisfazione -il senso d’inferiorità che si trascinava appresso fin da bambina -la investì implacabilmente”. Il suo abito nuovo di seta giallina dalla foggia antiquata, che aveva studiato per tante ore con la sartina per il ricevimento della signora Dalloway era il motivo che le procurava tanta straordinaria inadeguatezza, riaccendendo in lei il pensiero della sua codardia, del suo “misero sangue annacquato”. Aveva tentato di essere se stessa -se non poteva permettersi un vestito alla moda, almeno essere originale, per una volta, lo aveva fatto “abbandonandosi a un’innegabile orgia di amore di sé -da meritare di essere castigata, ecco perché si era conciata in quel modo.”
Mi trafigge questo breve racconto (L’abito nuovo) di Virginia Woolf. L’oggetto dello scandalo qui è un abito inappropriato alla circostanza, per di più un abito nuovo, creato per l’occasione. Un abito che dice di chi lo porta, e lo connota, più di quanto non lo facciano i tratti del suo viso, il suo sguardo, la sua voce. Un abito come la materializzazione di quella nostra figura preferita, che portiamo dentro, che dice pure del contesto di gusto in cui abita e prende forma. Provinciale —appare essere in tutta la sua ferocia la stigmatizzazione borghese della differenza di classe, della distanza insanabile di ceto, come di retroterra, di ambiente, di gusto. In gioco è una dimensione d’identità, di appartenenza. Un pregiudizio espresso da un punto di vista borghese e rivolto a chi non si conformi a una moda, uno stile, una tendenza esteriorizzata condivisa. Mi colpisce che la parola venga pronunciata come una condanna dalla stessa Mabel, che la subisce. Di un dolore fiammante la messinscena creata dall’autrice in quel salotto dove si consuma fino alla cenere la consapevolezza e la scelta, infine, della protagonista. In un carosello che possiamo facilmente immaginare di abiti “assolutamente incantevoli” che celano chi li indossa più di quanto non farebbero le più astute bugie. “Perché una festa rende tutto o molto più reale o molto meno reale, pensò; in un lampo vide fino in fondo il cuore di Robert Haydon; vide attraverso ogni cosa. Vide la verità. Ecco la verità. Il piccolo laboratorio di Miss Milan era in realtà terribilmente afoso, ingombro, sordido. Odorava di abiti e di cavolo lesso; e tuttavia quando Miss Milan le aveva messo in mano lo specchio e lei si era ammirata con l’abito indosso, finito, una beatitudine straordinaria le aveva inondato il cuore. Soffusa di luce, era balzata all’esistenza, libera da preoccupazioni e rughe. Ciò che aveva sognato di se stessa era lì: una donna splendida (…) E adesso era tutto svanito. L’abito, la stanza, l’amore, la pietà, lo specchio dalla cornice scrostata e la gabbia del canarino…tutto svanito, ed eccola lì, in quell’angolo del salotto della signora Dalloway, torturata dall’ansia, perfettamente desta alla realtà.”
Richiudo il libretto, supplemento domenicale del 24 Ore. Prendo un lungo respiro. Nella carrozza di un regionale che viaggia verso Venezia di domenica mattina. I posti a sedere sono tutti occupati. Davanti a me una donna anziana nei suoi vestiti colorati dagli accostamenti improbabili, dalle aderenze impietose. Per non parlare della borsetta che si stringe al petto. Dopo un primo sguardo, guardo ancora, con calma, guardo la donna e immagino le sue stanze, quelle della sua casa, le vie intorno alla casa, altre donne come lei -amiche, parenti, più o meno la stessa età, allo stesso punto nella vita. Posso guardare in tutto questo. Posso spingermi fino a intuire una linea di coerenza in tutta quella fiera d’improbabilità che porta addosso, posso lasciarmi guidare dai suoi occhi mentre si guarda nello specchio. Sì, credo che lei si voglia così. Infine, scopro che non mi dispiace.

venezia. 7 ottobre 2012.