Canti Orfici – una lista

 

 

 

Barbarico

 

 

Quando venni ad abitare in questa città quello che mi colpì fu soprattutto la sua atmosfera bruna, come impregnata fisicamente del colore della pietra, del riflesso di luce che ne emana. E poi la presenza di torri — non solo le principali ma anche quelle che all’improvviso s’innalzano nei vicoli, che già al primo sguardo ti fanno dimenticare il contesto urbano precipitando nella notte delle foreste. Ero arrivata d’inverno, con le nebbie stringenti e il silenzio che cancellano le cose almeno per metà, e della parte che resta indovinavo in quell’ambivalente natura corporea quanto di più oscuro e lontano nel tempo giungesse fino a me.

” Antico ” — non poteva bastare, perché restava una considerazione astratta, una concettualizzazione della mente, mancava di personalità. Il modo in cui la città si offriva invece era fatto di sensi, suggeriva memoria.

Quando qualche anno più tardi rilessi i versi di Dino Campana ecco che come per una reviviscenza avrei incontrato le figure che mi mancavano, che avrebbero potuto essere, abitare quest’antichità connotandola finalmente di quel carattere presentito. Non importava quanto fossero realmente esistite, o quanto invece fossero le visioni favoleggianti nella mente del poeta: erano fatte della stessa natura dei luoghi. ” Barbarico ” era proprio quel rosseggiare imperituro lungo il profilo delle torri, l’ombra di tutte le ore, il vuoto brunire sotto l’arco dei portici.

rosaturca

 

 

 

 

 

 

                                      La Notte.

[1]
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo.

Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee. Il barbaglio lontano di un canneto. Dal mezzo dell’acqua morta. Da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.

 

[2]
Io levai gli occhi alla torre barbara. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio.

Per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente.

La campagna intorpidiva allora nella rete dei canali. Fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera.

Anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.

[3]
A lato in un balenio enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida.

Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del commento latino.

 

[4]
Davanti alla faccia barbuta di un frate che sporgeva  dal vano di una porta sostavano in un inchino trepidante e servile, strisciavano via mormorando, rialzandosi poco a poco, trascinando uno ad uno le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati, tutti simili ad ombra. Una donna dal passo dondolante e dal riso incosciente si univa e chiudeva il corteo.

 

 

 

[5]
Strisciavano le loro ombre lungo i muri rossatri e scalcinati: egli seguiva, autòma.

 

Diresse alla donna una parola che cadde nel silenzio del meriggio: un vecchio si voltò a guardarlo con uno sguardo assurdo lucente e vuoto. E la donna sorrideva sempre di un sorriso molle nell’aridità meridiana, ebete e sola nella luce catastrofica.