L’Alzheimer e la passione dell’immaginario.

 

Alzheimer: il peso del buio.

Un paesaggio fatto al contrario (il video)

“Un paesaggio fatto al contrario è un racconto visivo e sonoro di percezioni, in cui il presente e il ricordo generano immagini e sensazioni. E’ come un teatrino disabitato, in cui a tratti prendono vita marionette scomposte, storie fantastiche, percorsi e visioni, sull’onda dell’entusiasmo generato dalla memoria che riconosce, ricolloca, riaccende. La mente del malato di Alzheimer non è solo capovolgimento delle percezioni, spaesamento senza ricordi, rarefazione della propria presenza. La coscienza, quasi regredita a una genuinità infantile, a volte genera pensieri in libertà, associazioni di idee audaci, imbandisce tavole di buonumore, in un percorso quotidiano che è condannato sì alla perdita progressiva, ma che non dovrebbe essere associato solo a uno stato di malessere costante e a un’angoscia senza uscita. La percezione del sé è diversa e storie e ricordi ancora abitano, indecisi e fragili, la memoria e l’individuo, a volte riproponendosi con realismo e inusitata forza, perfino con sprazzi di felicità autentica. Stupefacenti connessioni brillano tra le cose e la stanza buia della mente si popola di bagliori, riflessi, immagini nitide, anche se dipinte al contrario.”

 

 

A proposito d’immaginario.

Come spesso succede, comprendiamo l’importanza di qualcosa proprio là dove ci accorgiamo che manca. Così l’importanza di sentirsi ancora nella seduzione della passione dell’immaginario, balza in tutta la sua drammatica urgenza e necessità proprio quando ci rispecchiamo nello sguardo di chi, nella sua mente, stia smettendo di fiammeggiare proprio di quei corto-circuiti. Scivolando con spavento in un paesaggio desolato in cui i contorni delle immagini di una vita si perdono, cancellandosi progressivamente e lasciando cadere al posto loro soltanto una pioggia di cenere, prontamente riassorbita dal nulla silenzioso di uno spazio mentale divenuto infecondo. Come accade nella vita delle persone malate di Alzheimer. Ma questa malattia è soltanto la manifestazione più estrema e radicale dell’implorazione di aiuto che serpeggia più o meno latente nella vita di tutti in questa nostra epoca.

M viene incontro la rilettura “fuori moda” de Lo spazio letterario di Maurice Blanchot, a partire dal saggio introduttivo di Jean Pfeiffer che l’accompagna ampliando la riflessione sull’immaginario oltre la sfera dell’opera d’arte. Ho sempre pensato che si potesse emancipare la patologia dell’Alzheimer dall’esclusivo campo clinico -come dovrebbe avvenire per tutte quelle patologie, che sono tante, a sfondo “comportamentale” -per ricollocarla nella vita.

Sono passati più di vent’anni da quando per la prima volta abbracciavo con passione il testo di Maurice Blanchot. Fui folgorata dalla sua poetica, dalla somiglianza stringente fra le sue riflessioni sull’immaginario e la mia esperienza di vita e di scrittura. Soltanto una profonda intesa di sensibilità con l’autore poteva infatti consentirmi di accedere allora alla conoscenza della sua opera, nonostante la mia mancanza di mezzi di formazione filosofica e letteraria.

Dopo più di vent’anni non sono sicura di essere riuscita a distinguere la mia vita reale dalla dimensione dell’immaginario. Tuttora ritengo molto utili le riflessioni formulate dall’autore nel suo saggio degli anni ’50, per avviare sul tema un confronto critico e circostanziato non solo nella prospettiva dell’opera d’arte. I modi in cui ciascun individuo è in relazione -più o meno consapevolmente -con il mondo dell’immaginario implicano la necessità di dedicare una riflessione più accurata a una dimensione tanto impalpabile quanto strenuamente intrecciata alla nostra vita organica.

 

 

La passione dell’immaginario -di Jean Pfeiffer *

 

 

(Alcuni estratti.)

“L’immaginario non esiste. L’immaginario non è niente o, peggio, è menzogna, illusione che ci distoglie dalla vita. (…) E tuttavia l’immaginario ci ossessiona. Non c’è un solo istante della nostra esistenza che non sia percorso dall’immaginario, impregnato dalla sua lontananza; e non solo nei nostri sogni, nei nostri ricordi o nelle immagini, talvolta ci viene incontro nel cuore stesso di quella realtà che da ogni parte ci condiziona e ci sollecita, come ciò che d’un tratto sembra annunciare in essa una sorta di conversione imminente, la promessa e quasi il pegno di una surrealtà….”

“L’immaginario ci ossessiona, non però come qualcosa che sia l’altro versante della nostra esistenza, la sua faccia interna in rapporto con la sua faccia esterna, la sua possibilità infinita in rapporto alle sue possibilità limitate. (…) No, se l’immaginario ci ossessiona, nel seno stesso della nostra esistenza, è piuttosto come un di fuori, come un altrove che certamente ce ne distoglie, e dal quale tuttavia non possiamo distoglierci”.

“L’immaginario inteso come l’esteriorità radicale in rapporto al mondo, lo spazio fittizio in cui vivono le immagini.”

“Possiamo tentare di definire l’immaginario come un altro mondo, o come un non-mondo o come l’altro da ogni mondo. Ma forse l’immaginario si riconosce soprattutto in questo: è lo spazio di cui le immagini parlano, o che parla in esse.”

 

 

“Tuttavia l’immagine non esiste come un qualunque oggetto del mondo, non si lascia ridurre a una qualsiasi realtà. Essa esiste soltanto superandosi verso altro, significando per mezzo della somiglianza qualcosa di altro, qualcosa che essa non è veramente, qualcosa di assente. (…) Un’assenza scava l’immagine, la svuota del suo essere, della sua realtà.”

“L’immagine ci dà l’essere, ma ce lo dà privo di essere.” *

“L’immagine non appartiene alla realtà, e tuttavia vi rimanda, attraverso questa somiglianza, attraverso tutto il contesto di significazioni che l’accompagna. (…) Della natura specifica dell’immagine in quanto tale, la sola cosa che possiamo dire è che essa si sottrae.”

“L’immagine di un oggetto non soltanto non è il senso di questo oggetto e non aiuta alla sua comprensione, ma tende a sottrarvelo mantenendolo nell’immobilità di una somiglianza che non ha niente a cui somigliare.” *

“Che un essere somigli a un altro, un luogo ad un altro, un momento ad un altro, è cosa che già introduce l’equivoco, una inquietudine. La somiglianza significa lo stesso, ma sotto le spoglie dell’altro. In essa l’identità si specchia in se stessa, ma per sottrarsi a sé e per esporsi alla vertigine.
L’immaginario risiede forse tutto in questo iato. Ogni somiglianza è immagine, fa dell’oggetto la preda della sua immagine.”

 

 

“Avvertiamo tra lo spazio delle immagini (l’immaginario) e il mondo della realtà una distinzione, una incompatibilità fondamentale. (…) Entrare nell’immaginario è dunque entrare in uno spazio radicalmente estraneo, operare in rapporto al mondo e alla realtà della nostra vita una sorta di conversione fondamentale, entrare nello spazio di un’assenza che esclude ormai ogni correlativa presenza, nella dimensione di un altrove che esclude ormai ogni possibilità di essere qui.”

 

Tutto questo parlare di assenza, di un altrove che non è qui e che diventa perciò nessun luogo non deve trarre in inganno. Si tratta infatti, per me, di figure del linguaggio in cui la mente si muove cercando di delineare l’anomalia di un paesaggio e un orizzonte verso i quali costantemente solleviamo i nostri sguardi, là dove vivono le nostre immagini e sono attratte le nostre vite. Paesaggio anomalo perché privo di consistenza tangibile, come le stesse immagini che lo abitano. Ma non per questo fittizio o irreale. Sebbene l’immaginario sia un mondo impalpabile, sfuggente e le immagini siano oggetti immateriali — tutto ciò costituisce qualcosa dotato di forza propria, immersa in una fluttuante dinamicità come un’onda, una marea incessante di onde. Un mondo immaginario pulsante come un campo di elettricità che innerva di passione le nostre vite.

 

 

“Il primo nome che ha in noi l’immaginario è il nome di desiderio. Quanto le immagini annunciano si presenta come lo spazio di una infinita possibilità. Una sorta di tutto è possibile verso il quale il desiderio si slancia. Nel desiderio l’immaginario si fa promessa e fa risplendere come una promessa il fascino dell’altrove. (…) Proprio attraverso questo impulso il desiderio diviene prigioniero del’immagine, della sua fascinazione. Poiché il termine a cui il desiderio mira nel suo slancio non consiste affatto nel ricondurre l’immagine alle dimensioni del mondo, ma al contrario nel convertire il mondo alla dimensione dell’immaginario.”

“La fascinazione è passione dell’immagine.” *

“Dunque entrare nello spazio dell’immaginario è innanzitutto entrare nello spazio della fascinazione.”

 “La fascinazione è il tramite per cui l’immagine ci parla, se così si può dire il modo di espressione proprio dell’immagine, (…) il mezzo attraverso il quale essa ci attrae. E non con la chiarezza , la franchezza, la persuasione di un discorso, ma al contrario con la forza irreprimibile e la vertigine di un canto.”

“Vivere un avvenimento in immagine non vuol dire disimpegnarsi da questo avvenimento, disinteressarsene (…) ma vuol dire lasciarsi prendere, passare dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui la distanza ci tiene…” *

“Non vi è comportamento di fronte all’immaginario, perché di una immagine non possiamo fare nulla, perché essa capovolge proprio il rapporto che possiamo avere con l’oggetto, perché lungi dall’esserne in possesso (e quest’affermazione è al cuore dell’immagine, che nella fascinazione diventa il nostro stesso cuore), ne siamo al contrario posseduti.

” Ciò che ci affascina ci toglie il potere di dare un senso, abbandona la sua natura sensibile, abbandona il mondo, si ritrae al di qua del mondo, attirandoci, non si rivela più a noi e tuttavia si afferma in una presenza estranea al presente del tempo e alla presenza nello spazio.” *

“(…) l’area assoluta, dove l’immagine da allusione ad una figura, diventa allusione a ciò che è senza figura -e, da forma disegnata sull’assenza, diventa l’informe presenza di questa assenza.” *

 

 

Attratti, dunque, verso un mondo immaginario cui le stesse immagini rimandano come verso un luogo che non è qui, ma altrove. Immagini allusive di un altrove in cui le fantasticherie più ingenue troverebbero la loro realizzazione. L’ingenuità consisterebbe nel credere, nello sperare la possibilità dell’avverarsi luminoso nelle immagini di quella surrealtà, che però messa alla prova rivelerebbe, secondo Blanchot, di essere allusione di ciò che non ha figura; non più forma che si delinea nello spazio della sua mancanza, ma informe presenza di quell’assenza. Detto in modo diverso: l’immaginario non esiste -oppure esisterebbe come nessun luogo.

 

“Blanchot vede nella spoglia mortale una forma esemplare dell’immagine. Il cadavere non realizza la verità di essere pienamente qui, né d’altra parte somiglia all’uomo vivo che è stato. (…) In quello che un cadavere evoca, l’altrove è diventato in nessun luogo.”

“Dov’è? Non è qui e tuttavia non è altrove; in nessun luogo?” *

Il cadavere incarna così nella sua presenza materiale quanto è percepito solo in modo confuso, e anche contraddittorio nell’immagine: la coincidenza insostenibile di qui e di in-nessun-luogo.”

 

Il cadavere, per me, è invece manifestazione esemplare dell’impossibilità che avvenga qualsiasi forma d’incarnazione, quando sia sfuggito ormai “per sempre” ciò che noi ci ostiniamo a sostantivare in un nome -vita -mentre si tratta di un agire -il vivere. Lo stesso fraintendimento che vuole per le immagini uno sfondo (immaginario) in cui posare, salvo poi considerare quelle forme illusorie, poiché prive della possibilità stessa di concretizzarsi in qualsiasi sostanza: spostando perciò l’accento dalla facoltà propria delle immagini di agire su di noi a quella di disporre di una qualche sostanziale concretezza.

 

“Immagine insostenibile e, anche, immagine limite e limite dell’immagine. Immagine di nessun luogo. Ma nessun luogo è pure in qualche modo il fondo di questo spazio senza fondo che chiamiamo l’immaginario, di quest’assenza senza contropartita di presenza che si annuncia come la sua stessa dissimulazione.”

“(…) Nell’immagine -e alla patri nell’opera -è la morte che parla. Non la morte, ma senza dubbio la passione. Tuttavia tra questa e la morte permane una relazione sorda ed ambigua. Come se solo l’approfondimento di una passione ci introducesse nello spazio di una morte vera (…) in cui appunto l’Io sparirebbe in una somiglianza ormai senza nessuna somiglianza.”

 

Ma sull’immagine noi non possiamo dire l’ultima parola. Mentre col nostro sguardo siamo pronti sempre a saldare le cose fra loro, l’immagine sola ci viene incontro. Per quanto integrata in tutte le sue parti, ogni immagine rivela di essere al mondo da sola, per sé. Tutte le immagini, vanno. Ognuna alla sua velocità. A volte passano insieme in tante, come portate su ali. Altre volte è la forza di un’onda che le sposta ricoprendole di sé.

Nel segno di una morte che cancella il primato della vita, così come di un immaginario che viene pensato privo di realtà -niente per noi accade più. Quest’attrazione fatale di passione (opera) e morte realizza il fraintendimento più essenziale e clamoroso che sta al cuore del “destino” occidentale che ancora non è capace e non vuole riorientare le fondamenta del proprio ordine simbolico, che in una prospettiva lineare enfatizza la morte come origine e fine, dimenticando il primato essenziale della natalità per la vita, la ciclicità di caos e cosmos. Lo stesso ordine simbolico che ha originato la separazione fra pensiero e corpo, fra essere e apparire.

Rimandando ad altri discorsi l’approfondimento critico di questi ultimi argomenti, qui mi preme sottolineare come l’esperienza sopravanzi di gran lunga le più sottili speculazioni sulla natura dell’immaginario, sulla sua presunta realtà o irrealtà. Riconoscendo a questa dimensione psichica una fortissima implicazione organica vitale e materiale. Mi fermo ad osservare il potere rigenerativo che si sprigiona dalla dimensione immaginaria, così come dalla fascinazione che viviamo in relazione alle nostre immagini. Osservo ciò proprio là dove queste facoltà -come avviene nei malati di Alzheimer -vengono a sbiadire gradualmente con angoscia e dolore fino a mancare tragicamente.
Ho l’impressione di non esagerare se affermo che la passione dell’immaginario è anche passione d’amore per la propria vita.

 

 

 

 

*La passion de l’imaginaire di Jean Pfeiffer pubblicato su “Critique” nel 1966, è presentato nella traduzione di Goffredo Fofi nel volume edito da Einaudi Lo spazio letterario, di Maurice Blanchot.

*Le citazioni in grassetto sono tratte da L’espace littéraire, di Maurice Blanchot. Editions Gallimard, Paris 1955. Nella traduzione di Gabriella Zanobetti per i “Reprints” Einaudi, 1975.