L’instant decisif.

 

Mi domando se la memoria della fotografia di cui scriveva Henri Cartier-Bresson, non sia in realtà la manifestazione “memorabile” di qualche cosa in noi stessi come la struttura sottesa e misteriosa. Può un oggetto, quale appunto una fotografia, essere dotato di memoria? Se la memoria è piuttosto l’ambiente e il processo di qualcosa che accade e non la sua traccia tangibile.
Henri Cartier-Bresson raccomandava di evitare di fotografare “macchinalmente”, a raffica e in fretta per evitare di caricare un eccesso di inutili istanti, informazioni che ingombrando la memoria nuocerebbero infine alla nettezza dell’immagine e al suo contenuto risonante, veramente significativo. L’eternità che muove nell’istante sarebbe da prendere al ritmo stesso dell’evento.
E tuttavia, siamo davvero sicuri di puntare l’obiettivo davanti a noi, nella distanza fra il nostro occhio e il soggetto? Oppure l’oggetto che si mira ponendo sulla stessa linea occhio, cuore e cervello è posto nella direzione contraria, nella camera più oscura del mondo interiore? Che cosa è veramente fermato con una fotografia?

Riporto nella traduzione di Piera Benedetti per le edizioni Abscondita:

“(…) Per ciascuno di noi, a partire dal nostro occhio ha inizio quello spazio che si allarga all’infinito, spazio presente che più o meno intensamente ci colpisce e immediatamente diventa memoria e nella memoria si modifica in noi. Di tutti i mezzi di espressione la fotografia è la sola capace di rendere l’eternità dell’istante. Noi giochiamo con cose in continua sparizione e, una volta sparite, è impossibile farle rivivere.”

Henri Cartier-Bresson. L’istante decisivo.