Sugli aperti.

 

Quell’avanzo di luce estiva che non trovava la giusta densità per divenire visibile, quel principio di metamorfosi che non riusciva a raggiungere la forma —quella riserva che rimaneva non vista, che non smetteva di venire come carica di elettricità: inutilmente per la visione, ma sufficiente per la coscienza di esistere.
Luna: splendeva come liberata follia nel blu del cielo della notte d’estate, splendeva di sabbia e d’oro. Risuoni d’eco nel silenzio, erano i nostri, confusi e tuttavia realmente veri. Vivi.

 

L’antico popolo dei Messapi viveva qui. Ora è rimasto il sito archeologico, a pochi chilometri da Lecce. Un giorno con la luce di scirocco. Una presenza dentro il vuoto. Un vuoto che chiamiamo tempo.

Era un convento di Domenicani, oggi sede dell’università. Appena entrati nel chiostro secentesco non ci si aspetta le poderose mura romaniche e, racchiuso fra quelle, il vento del mare imprigionato nelle volte di pietra.

Quasi sempre le strade comunali che collegano Lecce agli abitati della provincia sono costeggiate di giardini d’ulivo, alcuni di questi sono secolari, si capisce dalle sculture viventi che fanno i tronchi degli alberi crescendo. Si dice che quel contorcersi e scavarsi, in origine, fu per volontà dell’albero stesso, quando per eseguire la condanna di Cristo si rifiutò di divenirne la croce.