Un fiume grande come il mare.

 

Mi sveglio. Quasi le sette della sera, c’è sempre luce fuori. Ancora vita. Richiudo gli occhi, mi rigiro. Penso. Il mio corpo nel letto grande di lino bianco. C’è anche del rosso sopra il letto, e qualcos’altro di rosso ancora sparso per la stanza. Di nuovo giro la mia faccia sul cuscino. Considero quanto tempo è passato da quando il tempo lo riempivo io. Il lino bianco, la vita quotidiana fatta di cure, le attese. Sulla piega delle lenzuola braccia che restano scoperte. Sono le mie. Sull’orlo del tempo presago di destino. Con gli occhi chiusi.

Nel tempo della casa sempre avanzava un resto, una pausa per il respiro, la scrittura veniva così. Un esercizio muscolare diverso, sui fogli bianchi, come latte. Come lino. Tessuto di pazienza, di attese. Di amore. Come la piega imprevista che può prendere un giorno di tempo sereno. E s’infiammava la mente, sempre al di qua dello sguardo aperto e vuoto che inquadrava il terrapieno illuminato, nelle ore diverse del giorno, dalla finestra sull’argine del fiume. Il fiume ormai alla fine della corsa, prossimo al suo estuario, azzurro già, più largo e piano come il mare. Più dolce e perduto nelle luci del tramonto.

Scrivevo, sempre come allungare legni inutilmente da una sponda all’altra del fiume. Come intrecciare improbabili passerelle che si puntano sul cuore, per camminare là dove non si può stare in piedi, mai. Una ferocia radicale. Con tutto l’essere proteso nello slancio. Che non avviene come credo io. Che resta dentro, e strugge. E non chiedevo di vivere. Nemmeno di morire. Fulminante era l’ascolto.

Erano tempi in cui scrivere teneva il conto dei giorni, non si sa mai perché.
Molti anni più tardi, è l’inizio dell’estate. Il primo giorno di maggio.